L’esperimento è semplice: aprire la pagina del motore di ricerca di Google, digitare Kim Dotcom e vedere quanti risultati appaiano. La risposta è: milioni. Eppure per Google – anzi, per Google+ – Kim Dotcom non esiste. Meglio: non si tratta di un nome vero.
Il social network di Google ha infatti sospeso l’account del fondatore di Megaupload e Mega (a rivelarlo è egli stesso su Twitter) perché il nome da lui fornito è sospetto: non sembra un nome reale, quanto piuttosto uno pseudonimo o un nome utente.
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Sin dall’inizio delle vicende giudiziarie nate dalla caduta di Megaupload, una delle domande rimaste senza risposta riguardava il destino dei dati degli utenti. Le autorità americane, quando hanno sequestrato i beni di Kim Dotcom, hanno in tal modo impedito che il fondatore di Megaupload potesse pagare i vari fornitori di hosting.
Da allora, Dotcom – con il supporto della EFF – ha cercato in ogni modo di permettere agli utenti di riottenere l’accesso ai propri dati, ma senza successo. Così alcuni provider – come Carpathia – hanno deciso di conservare intatti i server a proprie spese in attesa di una decisione del tribunale americano; altri invece non sono stati così clementi.
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L’appello cinguettato dal guru del file hosting Kim Dotcom per chiedere il soccorso delle grandi potenze del Web con una curiosa offerta di scambio. “Google, Facebook, Twitter, vi chiedo aiuto” – ha esordito il founder di Megaupload – “Siamo tutti sulla stessa barca del DMCA (Digital Millennium Copyright Act). Potete sfruttare gratuitamente il mio brevetto. Ma vi prego di aiutarmi nella difesa legale”.
Frustrato dall’estenuante battaglia contro le autorità statunitensi, Dotcom sembra averne abbastanza. In un secondo cinguettio su Twitter si può leggere: “Sono un innovatore, non un criminale. Vivo nel futuro, non nel passato. Le mie innovazioni aiutano le persone, non le danneggiano. Smettetela di perseguitarmi”. Dunque, l’innovatore Kim Dotcom ha snocciolato una serie di sue invenzioni, tra cui il sistema di sicurezza noto come autenticazione a doppio fattore.
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All’inizio dello scorso anno Kim Dotcom era stato arrestato con un blitz nell’abitazione dell’imprenditore che ha portato alla definitiva chiusura dei servizi Megaupload e Megavideo. Secondo uno studio condotto dalla Carnegie Mellon University nell’ambito del progetto Initiative for Digital Entertainment Analytics, la messa offline delle due piattaforme ha giovato agli affari dei siti che offrono lo streaming e il download legale dei film.
I dati presi in esame sono relativi alle ricerche condotte da Brett Danaher e Michael D. Smith, in 12 paesi di tutto il mondo e per un periodo pari a 18 settimane. Da questi emerge che, nel lasso di tempo considerato, i proventi ottenuti dalla distribuzione autorizzata delle pellicole cinematografiche in digitale sono cresciuti del 6-10% rispetto a quanto Megaupload era ancora in attività.
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È passato ben più di un anno da quando Megaupload è stato chiuso; nel frattempo, Kim Dotcom è tornato alla ribalta con il nuovo Mega e ha abbandonato il vecchio sito al suo destino.
Si potrebbe pensare che, stando così le cose e dopo oltre 12 mesi in cui tutto ciò che Megaupload mostrava era una schermata che ne annunciava il sequestro, il traffico del vecchio sito si sia ormai ridotto a zero.
Ci si sbaglierebbe: stando alla classifica di Alexa, Megaupload – che in attività poteva vantare 50 milioni di visitatori al giorno – ha ancora milioni di visitatori ogni mese e il suo traffico è di poco inferiore a quello di Mega.
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Mega, il nuovo cyber locker voluto da Kim Dotcom, catalizza dibattiti e speculazioni: l’erede di Megaupload è insicuro, dicono in molti, le password si crackano facilmente e più che alla riservatezza dei file caricati dagli utenti penserebbe soprattutto alla propria salvaguardia legale.
Il capitolo sicurezza è di quelli spinosi, difficili da controbilanciare con semplici dichiarazioni di circostanza: gli esperti che ci hanno messo sopra le mani, definiscono il meccanismo di cifratura usato per proteggere i file degli utenti “meno che ideale”. Le chiavi crittografiche vengono conservate sul browser dell’utente, con il codice JavaScript responsabile di comunicare con il server protetto da una connessione SSL a 2048 bit. Più che sufficiente, dicono da Mega, ma se qualcuno prendesse il controllo dei server del servizio potrebbe “catturare” le chiavi del client e fare quel che vuole con i file.
A poche ore dall’attivazione, poi, qualcuno ha individuato una vulnerabilità XSS sul servizio – ma tale vulnerabilità è stata corretta nel giro di poco tempo, dice ancora la società di Dotcom.
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Mancano ormai pochi giorni alla sua rinascita digitale, ad un anno dal raid statunitense che l’aveva abbattuta per violazione massiva del diritto d’autore. La celebre piattaforma di file hosting Megaupload sembra però faticare nella fase di promozione pubblicitaria, ostacolata in maniera silente dalle potenti major discografiche.
In un primo cinguettio su Twitter, il founder Kim Dotcom ha puntato il dito contro i responsabili di Mediaworks – uno tra i principali broadcaster neozelandesi, gestore di dieci stazioni radiofoniche – che avrebbero deciso di invalidare un precedente accordo con il cyberlocker, evitando così di trasmettere i vari spot radiofonici preparati in vista del lancio di Mega.
In un secondo micropost, lo stesso Dotcom ha puntato il dito contro le major del disco, accusate di aver esercitato pressioni su Mediaworks per boicottare la campagna pubblicitaria. “Ancora una volta – ha continuato il boss del file hosting – le grandi etichette abusano del loro potere”. (M.V.)